Pages

6 aprile 2015

Il ladro di zucchero di Alessandro Biagini (Recensione)


Titolo: Il ladro di zucchero
Autore: Alessandro Biagini
Pagine: 236
Editore: Intermedia Edizioni
Prezzo: 12,00 
Link d'acquisto se nell'ordine inserite la dicitura ELISA le spese di spedizione saranno GRATIS!!!





Toscana, 1975. Due bambini a cavalcioni su un muretto.
Qualche scippo e un po’ di sangue.
Pedoni che si guardano intorno, abbassano la testa e cambiano strada.
Ladroni che scorrazzano intorno, alzano la testa e benedicono la strada.
E la strada assorbe la confusione di non sapere da che parte stare, da un lato quelli giusti dall’altro quelli sbagliati.
Il sangue scola, il resto rotola e gli anni si lasciano rincorrere per non essere addomesticati fino in fondo.
Io lascio vagare lo sguardo in lontananza, oltre le fronde dei pini, dove il paesaggio si incastra e si incanta a fermare il tempo su un’epoca che pare ammutolita.
Tu afferri i meccanismi, li tieni tra le dita poi li getti lontano da qui. La mente soffoca pensieri che si innalzano fino alle nuvole gonfie di pioggia, prima di ricadere su un tappeto di muschio e aghi di pino.
Oltre i tetti di coppi e cemento, la vita sfoglia le istruzioni e studia le condizioni. Per i giorni trascorsi e per quelli che tentano di affacciarsi dietro le tende ricamate a uncinetto.
I bambini seduti sul muretto studiano un modo per diventare grandi, per strappare i fogli del passato, per accettare ordini e rimproveri.
Due bambini troppo piccoli per digerire il vortice che urla intorno ai loro sogni. Due bambini troppo grandi per accontentarsi di raccogliere pinoli e conchiglie.
Due bambini a fare a testa o croce per decidere quale maschera indossare.
Lupo cattivo o candido agnello.



Alessandro Biagini con il ladro di zucchero è riuscito a raccogliere in poco più di 200 pagine tutto ciò che un thriller deve avere.

Il ladro di zucchero, un uomo, un semplice uomo che decreta la vita e la morte di chi lo circonda, sì, scegli lui stesso le vittime, ma lo farà a caso, o seguirà uno schema? La cosa certa è che su ogni vittima lascia sempre una firma, "zucchero e formiche"...

Clic, uccidere.
Perché sei vivo?
 Perché uccidi?

Questi i pensieri che si ripercorrono nella mente del Ladro di zucchero! 

E poi c'è il signor Patrick, un semplice barista.

Sono loro i protagonisti di questo thriller, così diversi, ma legati da un fil rouge che il lettore scoprirà pagina dopo pagina.

Un libro che va letto con attenzione per catturare tutti gli indizi che l'autore spesso cela dietro semplici parole, parole che il lettore imparerà ad utilizzare come tanti pezzi che compongono un puzzle, e che alla fine mostrerà un quadro che mai vi sareste neppure potuti immaginare, il tutto in una cornice di suspense e mistero.




ZUCCHERO E FORMICHE (primo capitolo)

Ospedale San Giovanni Calibita, Fatebenefratelli. Interno giorno di un sabato di inizio luglio.
Il cuore dell’Isola Tiberina pulsa.
Il battito del Rione Ripa accelera.
Patrick si avvicina alla finestra del terzo piano Reparto Neurologia e sembra parlare con quei due pezzi di vetro affacciati su un cielo di piombo.
La testa fa un male assurdo, il cervello trasmette un impulso che anticipa un’idea.
Aprila.
Lui ripete tre volte il concetto proveniente da lontano ma accetta il consiglio senza farsi pregare.
Inquadra la finestra e la studia.
In un gesto vietato, in un sogno proibito.
A pretendere un posto in prima fila per accettare i mali del mondo e non dover chiedere il permesso a nessuno. Solo decidere, scegliere, afferrare.
La finestra si spalanca in faccia a una città stanca.
I versi dei gabbiani si fanno insistenti, quasi laceranti nella quiete della stanza numero dodici barra b.
Patrick osserva.
Gabbiani acrobati si staccano dai tetti e precipitano verso l’asfalto, accelerando all’impazzata come se volessero davvero sbatterci il grugno.
Gabbiani giocolieri cambiano posizione per studiare nervosi contrattempi.

Versi simili a risate a prendere in giro il tempo che li possiede, protagonisti assoluti di una giornata maledetta.
Sguardi che abbracciano lo spazio intorno senza escludere dettagli e trasparenze.
E poi quel sangue.
Limpido.
Improvviso.
Eterno.
Patrick si sporge dalla finestra per vedere meglio e non perdere nemmeno un attimo quel riflesso libero.
Il becco di un gabbiano assassino strazia e divora un volatile indifeso capitato per caso dentro lo stesso ingombrante disegno.
Il gabbiano è cieco per colpa di una zuffa del passato o di un improvviso cambio di traiettoria del suo volo candido.
Ma la carne la trova lo stesso.
E anche il sangue scorre lo stesso.
L’uomo osserva.
La testa ronza.
Pensieri accavallati, i resti di una vita che non è la sua, fotografie perdute.
La testa impreca.
Luci intermittenti, sillabe confuse, frammenti.
La testa perde colpi.
Bisogno di intercettare il tassello mancante a ricomporre le ultime vicende.
Lui non ricorda come è finito in ospedale, da quanto tempo è bloccato nella stanza che puzza di disinfettante e promesse non mantenute. Ma percepisce in un angolo della memoria una scritta rossa su fondo bianco.
Ospedale San Giovanni Calibita, Fatebenefratelli.
Il cuore dell’Isola Tiberina gronda.
Il battito del Rione Ripa rallenta.
E all’improvviso Patrick ricorda.
Ricorda il suo sangue e quello degli altri. Il suo delirio e quello degli altri. La sua vita e la morte degli altri.
Clic, uccidere.
Lui si veste e lancia nella stanza uno sguardo e un addio. La mano scorre sul pulsante dell’ascensore, testa bassa e mosse veloci.
Terzo piano.
Da qualche parte, in maniera dignitosa ma non troppo, qualcuno piange senza lacrime.
Le lacrime sono terminate e le speranze pure.
Secondo piano.
L’ospedale sembra deserto, ma è solo una perfetta finzione cinematografica. La stessa che tra qualche ora vomiterà un fiume di gente tra flebo e preghiere.
Primo piano.
Due suore procedono lente snocciolando rosari e perdoni.
Piano terra.
Patrick pare un visitatore solitario, di quelli che prima acquistano una scatola di cioccolatini o un pensiero qualsiasi e poi rinnegano il tempo perso e quello che resta da respirare.
La sua figura decisa percorre il cortile interno dell’ospedale, prosegue lungo un corridoio muto e scompare attraverso un portone di legno antico.
All’interno del civico numero trentanove di Piazza di San Bartolomeo all’Isola si scioglie il dolore per un funerale lento, fuori la gente festeggia una farsa senza nome.
Anonimo cadavere per anonimi spettatori.
L’uomo percorre pochi metri, le vie di fuga non sono molte.
Via di Ponte Quattro Capi con il suo Ponte Fabricio che si affaccia a strapiombo su acque melmose, più avanti lungo la strada Ponte Palatino che non conduce in nessun luogo particolare. Squarci di Roma controllati a vista da lampioni con lo stemma SPQR e lucchetti abbandonati insieme a iniziali stinte.
Patrick attraversa la strada e si infila di nascosto dentro un bar. L’aroma del caffè lo intriga e lui accetta di far scendere nello stomaco un sapore invitante.
Lo sguardo si lascia catturare da poster scoloriti e bottiglie di liquore che disegnano una parete arancione. Le mani afferrano una bustina di zucchero da un contenitore con la pubblicità di un film da quattro soldi.
In un secondo la memoria torna a galla.
Ricordo tremolante di ricerche al computer, interrotte da raggi di sole scaraventati sulla tastiera.
Ricordo del bambino che era e dell’uomo che è diventato.
Ricordo del suo passatempo preferito.
Clic, uccidere.
Zucchero e formiche che passeggiano tra la nebbia della mente.
Tracciano intrigo e disgusto.
Galleggiano su una superficie increspata che dondola ma non commuove.
Roma ride a crepapelle.
Povera turista costretta all’esilio, che di giorno accetta proposte indecenti come una donna di facili costumi e di notte resta immobile per assorbire luci e confusione. Atteggiamento cortese di chi ha deciso di farsi i cazzi suoi, quando sarebbe il caso di metterci un punto.
Patrick osserva l’orologio da bancarella che scivola curioso oltre il polsino della camicia. Se non fosse per l’odio che gli brucia dentro, potrebbe considerarlo un gesto di elegante anticipo di chissà quale altro lusso.
Da potersi concedere per accettare un sonno incompreso.
Da voler assaggiare dopo un caffè annacquato.
Dall’altra parte della strada la gigantografia di un intimo di donna lo osserva ammiccante, a voler dire che sono trascorsi trentasei giorni dall’ultima volta che ha ucciso.
Trentasei giorni da quando lo sguardo si è fissato negli occhi della vittima, a lasciar intendere che la vita stava per traslocare per sempre.
Trentasei giorni da quando una busta di plastica per surgelati contenente cristalli di zucchero e formiche senza testa è precipitata al centro di una pozza di sangue innocente.
Trentasei giorni.
E una manciata di maledetti minuti.
Patrick non si trova in questa città per caso.
Qualche tempo fa Roma lo ha adottato accogliendolo tra le braccia. Spalancando portoni e buoni propositi per raccogliere la follia e presentare il conto senza chiedere nulla in cambio. Dopo aver udito voci e cantilene, mescolandole con un attimo di ridicola euforia.
Scenario scartavetrato su un finale malinconico che in certe giornate si digerisce in fretta. Qualcosa di incompreso che introduce una stagione ingombrante e si affanna a interpretare i titoli di coda.
Le scritte non si fanno attendere.
Rotolano scomposte, rimbalzano sfuggenti e quando sembrano condurre a un finale logico, si sgretolano in un ingorgo di invisibili esistenze. Spezzando il filo sottile che libera la mente e la nutre di una insospettabile alternativa.
Unica soluzione possibile come una rosa senza spine scelta tra tante.
Clic, uccidere.
Patrick molla il giornale accartocciato e inizia a correre come un animale braccato. Perché ora la sua ombra ha una necessità assoluta. Trovare la chiave di accesso prima degli altri.
Per questo studia le tappe, le divora e le brucia, incapace di indovinare soluzioni. In un assordante ticchettio che oltrepassa la monotonia cittadina per intrufolarsi a pochi centimetri da volgari contrattempi.
Lui sposta lo sguardo altrove, ma lo guardo vuole restare incollato qui, sull’idea che è appena nata dentro la sua mente perversa.
A quest’ora a Lungotevere degli Alberteschi è facile confondersi tra le persone come se lui fosse uno qualsiasi.
Uno di passaggio o uno di troppo.
Patrick osserva la pralina alla fermata del bus e gli occhi restano impiccati sul simbolo della metropolitana che compare lungo il percorso del mezzo numero 23.
Prossimo obiettivo Via Ostiense, Piramide.
Nessun urlo di gioia o pianto liberatorio. Solo la fredda convinzione che quelli intorno a lui sono qualcosa da evitare a ogni costo.
Gli altri non gli piacciono.
Gli altri potrebbero finire morti ammazzati.
Senza motivo, come se uccidere fosse una scusa per giustificare le regole del gioco.
Mossa a sorpresa tra ingorghi quotidiani e distanze da mimetizzare.
E nessuno pare farci caso se lui comincia a sospettare di aver commesso qualche errore di valutazione. Se lui mentre nessuno lo pretende, resta appeso alla sorte a rendersi conto della velocità che si impiega tra restare in disparte e diventare cattivi. Allora basta un riflesso della luna sulla punta delle scarpe a comprendere che trentasei giorni sono davvero troppi.
Stanotte qualcuno ha bisogno di uccidere.
Ore ventidue e quarantasette, su uno scalino qualsiasi della metro B. Di questi tempi sotto la metropolitana di Roma si trova di tutto.
Venditori di sogni, traditori depressi, calciatori falliti.
Invasori digitali che in un luogo dimenticato come questo, pretendono di rispolverare segmenti di luce preziosa.
Chi tira le voci e chi lancia i dadi, con il risultato appeso al gancio di un mezzo di soccorso.
E in fondo alla galleria, qualcuno che sfoglia i necrologi per organizzare il prossimo funerale.
Patrick parla con l’ombra che gli siede accanto sulla panchina.
A osservare senza vederle le pagine di un quotidiano del giorno prima, con le persone che provano a digerire fette di incertezza. A maledire un destino ruvido che si intreccia su ricordi e impronte.
A bestemmiare santi e madonne, quando le preghiere sono terminate da troppi anni.
“Hai una moneta?”.
Patrick si lascia avvolgere come una coperta di lana che puzza di urina. Se lui per qualche miracolo imprevisto avesse deciso di tornare a casa come un essere umano qualsiasi, ora non avrebbe scampo.
Se solo lui si fosse reso conto del tempo trascorso, della gente indaffarata, dell’ultima corsa della metropolitana partita da un pezzo.
Se solo lui avesse udito il metallo dei cancelli d’ingresso che come tutte le notti alla stessa ora annuncia la chiusura di incubi e deliri.
Se.
“Bestia di merda dico a te, hai una moneta?”. La voce rimbalza fuori dai binari. Uno di quei rantoli che sarebbe meglio evitare, che odora di miseria e delusione, come se in questo posto che pare un inferno, oltre a lui potesse esistere un’altra forma di vita.
Zucchero e formiche.
Il buio si convince di avere in mano le carte migliori.
Quel buio che tutti evitano come una malattia infettiva o un luogo senza ritorno.
Buio. Nero. Notte. Nulla.
Ingranaggio incompreso, mondo immaginario, universo sommerso che a toccarlo con le dita viene voglia di suicidarsi all’istante. Uno chiavistello che si apre a un passo dal mondo reale, per mostrare le fette di marcio che è capace di rinchiudere.
“Una moneta”.
Patrick chiude gli occhi e finalmente sente la puzza.
Un odore sgradevole di carne putrefatta, di pelle bruciata, di sudore, di urina, di birra, di morte. Un ribrezzo che fa venire voglia di vomitarsi addosso, nella speranza che nello stomaco ci sia ancora qualcosa da cacciare fuori.
Lui si volta e le precedenti intenzioni si lasciano ingoiare dal buco della notte. In attesa di una reazione o di una smorfia di disgusto.
Gianni il barbone lo fissa senza vederlo ma comprende di trovarsi di fronte all’ultimo uomo sulla faccia della terra.
La sua terra.
Un territorio ribelle che tiene a distanza la corteccia esterna, gli abusi della vita frenetica e i mali che si lasciano trasportare da onde incomprese. Lontano ma non distante da esseri umani che in un tempo qualsiasi, hanno scelto di essere bestie piuttosto che eroi.
“Non mi interessa sapere chi sei o perché ti trovi qui. Voglio solo la mia sporca moneta”.
“Vaffanculo! Non ho intenzione di cacciare la mano in tasca per sganciarti qualche centesimo. Non ti conosco e non voglio perdere tempo con te”.
Patrick avverte un pallido senso di soffocamento. Gocce di sudore giustificano l’umidità proveniente dal tunnel della metropolitana. Getti di calore si affannano dalle ventole nascoste nella parete.
La bocca di Gianni è a pochi centimetri dal viso di Patrick e nonostante la birra ingoiata, il barbone riesce a mantenere una fiammella di lucidità che lo fa sembrare composto dentro la sua fredda richiesta.
“Te lo dico per l’ultima volta. Voglio indietro la moneta che ti ho prestato”.
Il silenzio è assoluto come la vena di follia che separa i due uomini dai rispettivi confini.

Nessuna resa, nessuna intesa. Armi o bagagli, smorfie o intrusioni. Solo un luogo da condividere in fretta, per poi perdersi negli anfratti del mondo.
Le mani si sfiorano.
Gesto confuso nel consegnare una moneta da cinquanta centesimi, espressione liquida nel ricevere quel metallo rotondo. Compagnia da accettare come due misere esistenze che sfogliano un elenco di rancori.
E nello stesso attimo, Patrick capisce di aver trovato la sua prossima inconsapevole vittima.
Così mentre Gianni strofina la moneta sulla stoffa dei pantaloni luridi, l’uomo seduto accanto a lui accarezza l’involucro di plastica trasparente e sorride di nascosto.
Per i regali che il destino riesce a consegnare a chi ha voglia di accettarli.
Per continuare a credere che un pensiero distorto possa servire a rinnegare il passato e nasconderne i contorni.
Moneta. Zucchero. Formiche.
Gianni si tira in piedi.
Il suo è un ridicolo tentativo di trovare un perfetto baricentro. Qualcosa in grado di sconfiggere la sbornia per raddrizzare un paio di piedi coperti di vesciche. Un ammasso di muscoli obbligati a percorrere il tragitto che separa la sua baracca di muffa e cartone da questa vita qui.
Anche Patrick si alza.
E insieme alla sua figura si ricompone la fredda condizione che lo obbliga a trasformarsi in qualcosa di diverso. Come fosse il personaggio di un videogioco virtuale. Essere minaccioso catapultato purtroppo o per fortuna tra le pagine di un copione ingarbugliato.
Birillo privo di equilibrio che sgomita per mantenere la propria identità.
I passi di Gianni vibrano stanchi, quelli di Patrick accettano gli spostamenti. Respiro addosso a respiro, ombre che inseguono identiche ombre. Come se la notte di colpo avesse deciso di invitare un solo spettatore pagante e loro fossero costretti a giocarsela a testa o croce.
Testa.
A sciogliere i nodi che legano tra loro tutte le nuvole che nascondono il paradiso.
Croce.
A rinnegare i peccati che friggono tra le fiamme dell’inferno.
Testa, io vinco.
Croce, tu muori.
“Cosa farai con quella moneta?”. Patrick rispedisce al mittente la puzza che proviene dal corpo del barbone e senza starci a pensare, lo afferra sotto al braccio per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio.
Il suo ultimo viaggio.
Ma Gianni questo ancora non lo sa.
“La metterò insieme alle altre. Domattina comprerò una birra per fare colazione con la carne di topo che ho conservato tra le mie cose”. La voce pare quella di un bambino sprofondato nel letto per aspettare la buonanotte e sognare un mondo migliore.
Cristo.
Birra e carne di topo.
A volte la vita riesce a far schifo per davvero.
Ora la loro andatura appare sostenuta, come quella di due vecchi amici che si ritrovano dopo molto tempo, magari con la scusa di una partita a calcetto.
“Non hai nemmeno un parente, qualcuno che si prenda cura di te?”. Patrick recita alla perfezione la parte del confessore, a Gianni resta quella di chi ha commesso troppi errori.
“La mia famiglia mi ha cacciato di casa dopo l’ultima incazzatura. Ho lanciato troppe cose e mille voci dalla finestra e la gente intorno è rimasta a guardare con gli occhi spalancati e la bocca chiusa. Forse è successo ieri oppure sono passati troppi anni”.
Se Patrick avesse tempo da buttare, si fermerebbe a ragionare sull’osservazione del barbone.
Sono passati troppi anni.
Come si fa a non ricordare il momento preciso in cui la ruota cambia giro?
Come si può rinnegare la maledizione di una vita andata a puttane?
Patrick non vuole conservare nessuna briciola del passato e allora decide che è arrivato il momento di farsi un regalo.
Togliendolo all’unico uomo che della sua condizione non sa che farsene.
Per questo se la ride.
Non una risata di quelle nate per caso. Ma un ridere di gusto per una situazione che non sarebbe potuta risultare così invitante nemmeno a progettarla per filo e per segno.
Per questo ricorda.
Corde intrecciate che lasciano emergere antiche inquadrature. Macchie. Contorni. Fughe. Ritorni.
E l’ombra indefinita che vaga tra i pensieri si trascina furba e arrogante. A seguire i passi senza abbandonarlo mai.
Ombra che grida più forte per farsi notare e poi corre a gettarsi acqua fresca sul viso.
Lui sa bene che da quando ha iniziato a uccidere, per la prima volta la vittima percepisce di trovarsi in un luogo per un motivo che non gli piace per niente. Come se loro due si fossero dati appuntamento lasciando fuori la porta gli altri invitati per godere di una solitudine assoluta.
Per impegnare la vista e l’udito alla ricerca di suoni imperfetti.
Per raccogliere didascalie arroventate che solo certe giornate riescono a conservare. Spremute di vita da leccare con le dita che scorrono frettolose tra rughe e imprecazioni.
Ancora una manciata di luridi minuti e l’orrore prenderà forma, per materializzarsi in un tonfo attutito a inghiottire comparse e protagonisti. E lui tornerà a indossare la parte del ladro di zucchero per scelta, a nutrirsi gratuitamente delle inquietudini del mondo che lo circonda.
Clic, uccidere.
Per abbracciare la noia e annientarla in un bavaglio di stracci.
Cinque meno dieci.
In un luogo distante da qui, qualcuno scaglia una sveglia contro il muro, ignorando la pioggia di una giornata anonima e l’obbligo di dover uscire da casa a tutti i costi.
Per guidare, tradire o rubare.
Tic, tac. Tic, tac.
Cinque e zero due.
Un uomo e una donna litigano come animali inferociti per una storia da incendiare. Fotografie da strappare, regali di Natale da dimenticare, attimi da rimpiangere.
Odio.
Cinque e diciannove.
Un sacerdote implora il suo Dio per non farlo cadere in tentazione. Per non costringerlo ancora una volta ad accettare una proposta indecente. Per non ritrovarsi suo malgrado sull’orlo di un abisso sconosciuto.
Vergogna.
Cinque e ventisette.
Le fiabe inventate restano fuori da qui, mentre la realtà sotterranea si trasforma in un incubo spinoso.
La metropolitana sbuca dal buio del tunnel anticipando le lancette che stavano per andarsi a incastrare dietro al vetro di un orologio consumato da ruggine e ragnatele.
Cinque e ventinove.
Patrick si rende conto del rumore e della luce che proviene dalla galleria alla sua destra. Allora comprende che questa è l’unica opportunità che si presenta per soddisfare la sua follia omicida.
Un secondo di ritardo nell’agire e il piano sfumerà davanti agli occhi come un aquilone precipitato tra le rocce.
Un secondo di indecisione e lui tornerà a essere un normale cittadino perso in mezzo a facce comuni, a sopravvivere alla solita giornata inventata.
Un secondo.
Tutto ciò che può bastare per passare da una vita disordinata a una morte arrogante. Lasciare e prendere, senza rendersi conto del biglietto d’ingresso  sull’uscita secondaria.
Il ladro di zucchero non cerca scuse. L’unica cosa che resta da fare è afferrare il coraggio e dare una spinta alla spalla del barbone che gli rotola a fianco, appeso alla presa sicura del suo braccio.
Profumo di acqua di colonia contro puzza di merda secca. Uno sguardo con gli occhi che fissano un altro paio d’occhi e poi via a incontrare il prossimo capitolo del film.
Clic, uccidere.
Il macchinista non si accorge del corpo che precipita sotto al vagone lucido, perché in quel momento la sua conversazione telefonica è più intrigante di qualsiasi cattiva notizia. In fondo chi se ne frega di una figura randagia che scompare in silenzio.
Nessun disturbo, nessuna lacrima. Nessun nome da rintracciare, nessun contorno da ricomporre.
Proprio ora che sarebbe ridicolo rattoppare poveri brandelli di pelle.
Alle cinque e trenta in punto sotto il manto stradale della città, due uomini si separano senza motivo. Due uomini che all’inizio del loro incontro, avevano sperato in una bevuta solitaria o in una vincita improvvisa e ora si ritrovano di fronte a una cupa sconfitta.
Sopravvivere senza lamentarsi.
Morire senza fare un fiato.
Quando il sangue schizza e la carne esplode.
Quando la mente abbandona il resto del corpo con una risata obbligata che ripercorre al rallentatore i fotogrammi precedenti.
Quando il rumore di ossa frantumate, si staccano dal corpo e schizzano addosso a cartelloni pubblicitari e pareti umide. Quando l’orrore si aggrappa a una galleria senza fondo. Fantocci di passaggio, eroi per caso e almeno una volta al mese un Dio indaffarato.
Un Dio che rinchiude in un fagotto la delusione di aver terminato i miracoli.
Un Dio che spera di non essere riconosciuto da quelli che come lui si nascondono dietro le edicole abbandonate lungo la strada.
Nel frattempo i vetri della metropolitana riflettono il sorriso della morte, come se sorridere in certi momenti fosse davvero possibile. Pezzi di carne che si staccano e si decompongono come tessere di un puzzle, denti e frammenti di cuoio capelluto che si confondono tra topi e lamiere.
Patrick resta a guardare Gianni il barbone che scompare sotto la metro senza alcun lamento.
Basta un attimo e le sue gambe non ci sono più, scaraventate da qualche parte insieme a tutto il resto. 

Nemmeno la sua testa c’è più, privata dell’espressione malinconica che accettava una vita fatta di stracci e cartoni.
Per uno strano scherzo di qualche fantasma maleducato, una moneta da cinquanta centesimi rotola tra i binari e la notte. In quel luogo maledetto che forse a quest’ora sarebbe meglio evitare.
Almeno fino al riflesso metallico delle luci dell’alba.
Gialle come il ricordo, rosse come il sangue.
Eppure basterebbe riportare le lancette indietro di mezz’ora per dare alla follia un differente destino. Invertire il finale della scena per ingannare l’ultimo applauso. Desiderare una tinta diversa per quell’unica parola che di solito appare al termine di lavori in corso.
FINE.
Se solo Patrick non avesse scelto questa maledetta fermata della metropolitana.
Se solo Gianni si fosse ubriacato in un quartiere diverso.
Un assassino di passaggio in un luogo scelto a caso, un cadavere precipitato nel buio assoluto dopo aver ingoiato altro buio.
Da dove vieni e dove andrai a finire?
Tra qualche ora nessuno perderà tempo a cercare Gianni.
Identità incastrata in un ambiente perfetto e scuse precipitate. Qualcosa da scartare con decisione per ritrovarsi a osservare una sorpresa indesiderata.
Tra qualche ora nessuno riuscirà a trovare Patrick.
Eleganza e follia incollate insieme, che se ne vanno in giro per la città senza fermarsi a chiedere spiegazioni. Come se uccidere fosse un regalo da concedere al miglior offerente.
E dipinta sotto la galleria degli orrori metropolitani, una scritta che risponde alle domande di una città che pare dormire, anche quando recita alla perfezione una parte che non gli appartiene.
Una scritta di vernice rossa con lettere deformate a metà tra un rebus inquietante e una  verità vellutata.
Night prowler, predatore notturno.
Lui conta le lettere, somma di vocali e consonanti a custodire un significato illogico. Poi sputa un grumo di catarro che a guardarlo non pare possa appartenere a un solo essere umano. Qualcosa di viscido che si aggrappa a un pavimento di impronte sbiadite e sigarette consumate.
Biglietti scaduti, amori messi da parte, vite giunte al capolinea.
Night prowler, predatore notturno.
Patrick tenta di camuffare la sua ombra. La mano destra a frugare nella tasca. Passi che vorrebbero fuggire lontano ma restano inchiodati per sbaglio.
Attendere e riflettere per comprendere senza farsene una ragione.
Poi lo sguardo si sposta sul sacchetto di plastica per i surgelati che stringe tra le mani sudate. Come se la leggerezza riuscisse a nascondere le offerte speciali. Una sorta di tre per due, prendere o lasciare. Quando la gente si affanna spingendo il cuore e la mente oltre ogni limite. Immaginando il confine appeso al cartello del prezzo esposto in mezzo a prodotti scadenti.
Se la merce è un corpo.
Se la vita non conta.
Mentre l’esistenza intera si lascia inghiottire da un buco oscuro.
Clic, uccidere.
Cristalli di zucchero e formiche senza testa.
Se ciò che accade non è un gioco da bambini e nemmeno una virtuale casualità.
Se tutto pare bianco o nero, giusto o sbagliato.
A invocare una pace che quando serve non arriva mai. Allora scatta l’obbligo di afferrare al volo una decisione stampata su un arcobaleno. Cercando di farsene una ragione.
A quest’ora la vittima non esiste più, al contrario il suo assassino è vivo e vegeto. Vivo in ogni ridicola mossa e in qualche incomprensibile smorfia. Vivo dentro le cazzate, gli alibi, le imprecazioni e le giustificazioni.
Vivo.
Anche quando osserva un frammento di carne umana finita a pochi centimetri dalle scarpe.
Vivo.
Mentre si china verso il basso, agguanta il trofeo come fosse il primo cornetto del mattino, poi lo lascia scomparire tra le tasche.
Prima di lasciare la scena alle spalle, incurante del buio che lo insegue, con la mente che corre contromano.
Mosse azzardate o azzeccate da preferire a rotoli di nebbia che agitano una notte spenta. Quando le luci di periferia agguantano i veleni di un giorno svanito.
Dopo quarantanove giorni dall’incidente che lo ha coinvolto e dal conseguente esilio forzato in ospedale, Patrick ha trovato un motivo per tornare a uccidere.
Roma non è mutata, non ha perduto la forza, la storia, i colori. Elementi che la rendono affascinante come fosse un’amica sempre pronta a confidare un segreto.
Anche il cielo è lo stesso.
A volte di un azzurro così intenso, che solo a spostare gli occhi verso l’alto, si resta folgorati da una luce che illumina il mondo intero. Regalo inatteso da scartare con cura, ignorando i contrattempi di una giornata stralunata. Altre volte di un grigio così cupo, che le nuvole sembrano essere state ritagliate da angeli dispettosi per nascondere antiche furberie.
Incroci percorsi in lungo e in largo, ponti che offrono l’eco del Tevere che scorre senza freni. Voglia di travolgere gli anni trascorsi e quelli da raccogliere, per fermarsi a cullare un altro sogno infranto. Patrick adora i fotogrammi in cui la natura riesce a porgere le sfumature, dettagli immacolati che vengono rubati da artisti di passaggio in cerca di fortuna.
Tracce di imperfetto che fanno nascere il quadro migliore.
Paesaggi di giorni smarriti e ritorni fuori orario. Di corse inutili, di pioggia e rimproveri. Di scalini zuppi d’amore, di voli eleganti.
Poi il quadro si scompone in un esercito di mille anime che precipitano a inseguire il dedalo contorto dei vicoli nudi. Il procedere diviene un gioco perverso. Il profumo di caffè avvolge mattoni e prostitute fino a confondersi in un bar, dove tra qualche ora i titoli dei giornali torneranno a far paura.
Gli sguardi resteranno incollati a un quotidiano appeso alla parete e i commenti salteranno fuori da soli.
A Roma si uccide ancora.
Qualche scippo, un po’ di sangue. Pedoni e ladroni.
Un cadavere, nessun colpevole.
Colpevole di aver spento una vita come a volte si spegne un interruttore fastidioso.
Colpevole di nascondersi come un ragazzino burlone in mezzo a giochi e colori.
Colpevole di essere tornato al mondo per annientare quelli come lui.
Colpevole del fatto che a volte tutto comincia con un caffè. Ma finalmente felice di aver ripreso il suo ruolo da invisibile in mezzo a tanti altri come lui.

Nessun commento:

Posta un commento